Il mio giudice. Dedicato a Rita Atria (1993)

‘Cittadini della mia terra patria
Guardatemi muovere all’ultimo cammino,
Guardatemi rivolgere l’ultimo saluto al sole,
l’ultima luce che io vedrò.
Ade, il dio del grande sonno viva mi conduce
Alla riva d’Acheronte,
e non più nozze per me
non canti nuziali,
ma alla morte andrò sposa.’
Antigone, Sofocle

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La storia di Rita Atria, collaboratrice di giustizia del giudice Paolo Borsellino e importante testimone per le inchieste antimafia di Falcone e Borsellino, l’abbiamo conosciuta tutti attraverso le cronache giornalistiche: terrorizzata dalla solitudine nella quale la tragica morte dei giudici Falcone e Borsellino l’aveva lasciata, abbandonata dalla famiglia e dalla comunità del proprio paese d’origine, si è suicidata gettandosi dalla finestra dell’appartamento in cui viveva nascosta sotto stretta sorveglianza delle forze dell’ordine.
A suggello di questa storia sciagurata di profonda solitudine, abbiamo dovuto anche leggere dello sfregio inferto sulla sua tomba dalla madre che non aveva mai approvato la difficile scelta di Rita di collaborare con la giustizia.
Resta da queste note di cronaca lo sgomento di un incomprensibile silenzio, la memoria di gesti orribili ai quali la segregazione sociale, culturale prima e quella giudiziaria poi, hanno negato ogni diritto di parola.

Se il teatro vuole dar voce adesso a quelle parole mai pronunciate non è soltanto per un risarcimento postumo che sarebbe arbitrario e presuntuoso, ma forse anche perché l’invenzione artistica può spesso illuminare la realtà, inventandola, molto meglio di qualunque spiegazione sociologica, molto più di tutte le ricostruzioni giornalistiche, degli infiniti meandri nei quali si perdono le dotte spiegazioni degli esperti. E la voglia emergente del Teatro  di smettere i travestimenti d’epoca per indossare i panni dell’attualità è il segno di un’ansia di rinnovamento civile dopo lunghi decenni di appartati trastulli accademici.

Rita, o figure come lei, sono simbolo del coraggio del cambiamento. Rita cerca una strada di autenticità fuori dalla menzogna, cerca un nuovo ordinamento, una nuova religione che è in realtà una religione dell’origine, una legge non scritta, dell’anima. E questa ricerca la divide con violenza dalla sua gente e dalla sua terra,
Il suo tentativo non arriva a compimento, si scontra con la solitudine e il vuoto, l’assenza dei riferimenti.
Rita emerge dal nulla e viene risucchiata dal nulla.
Rita usa la parola per affrancarsi, parola che non spetta ai “servi” e alle donne.
L’idea centrale dello spettacolo è di rendere universale una tragedia come quella di Rita Atria che apparentemente è solo siciliana. C’è una città immaginaria certo, ma con una atmosfera gravida di arcaicità da tragedia presente nella realtà siciliana. È la nostra città, quella guerra civile riguarda noi tutti, è anche la nostra di guerra.
Gli spettatori diventano quindi gli abitanti della città, riuniti in una grande piazza, dentro le mura della città. Più che uno spettacolo politico sulla “mafia”, questo è uno spettacolo sulla solitudine, sull’abbandono.
L’antagonista di Rita è il coro  delle donne della città: una sorta di Grande Madre del conformismo ma anche di suono interiore di Rita: il turbinio dei pensieri, delle paure, dei dubbi che le si agitano dentro e la lotta che schianta questa ragazza di diciassette anni. Dal coro delle donne si stacca un’unica presenza maschile: il fratello di Rita. Rivivendo il suo passaggio umano pieno di dolore, Rita si sottrae ad un sacrificio inutile senza il ricordo e la memoria.
Per questo le offriamo la nostra voce.

Valter Malosti e Almerica Schiavo

Lo spettacolo è stato scelto per rappresentare l’Italia alla Bonner Biennale (Bonn, giugno 1994)

  • di Maria Pia Daniele
  • regia Valter Malosti
  • con Almerica Schiavo, Maria Letizia Gorga, Stefania Ometto, Nicola Rignanese, Maddalena Rossi
  • collaboratore ai movimenti scenici Tommaso Massimo Rotella
  • musiche originali Ezio Bosso
  • produzione Teatro di Dioniso, Divina
  • ph. Rapalino