Tristi amori (1995)

Alla prima nazionale, nel 1887, Tristi Amori di Giacosa fu subissato di fischi. Il pubblicò non riuscì ad accettare, fra le altre cose, un finale di primo atto in cui la serva di casa snocciolava alla padrona la lista della spesa: “Filetto venticinque, burro quindici, patate tre…” Ma l’arte della Duse che riprese di lì a poco il dramma, finì per imporlo come uno dei piccoli capolavori della non troppo consistente drammaturgia italiana del secondo Ottocento. Il centro dell’attenzione non è più sugli avvenimenti, sui colpi di scena, bensì sull’ambiente, sullo sviluppo analitico delle passioni e dei personaggi, che mostrano dei profili ambigui e contraddittori. Il personaggio non si configura più come coerenza assoluta di carattere, tutto d’un pezzo e tutto d’un colore, ma è un impasto complesso, fatto di sfumature, di mezze tinte. Fabrizio è il nobile decaduto capace di ogni sacrificio per salvare l’onore di suo padre e il suo, ma non sa resistere alla tentazione di sedurre la moglie del suo benefattore, dell’amico, dell’uomo buono che lo ama come un fratello maggiore. Emma si consuma nell’angoscia del rimorso e non sa rinunciare alle gioie della colpa. L’avvocato Giulio Scarli è un marito che davanti alla terribile scoperta del suo disonore resta atterrito dalle conseguenze della sua stessa sventura e non sa perdonare. Un sottile ma tenace risentimento di classe attraversa i personaggi. Emma si innamora di Fabrizio perché affascinata inconsciamente dai tratti nobiliari del giovane, assistente di suo marito nello studio dell’avvocato.
Giulio Scarli gli offre lavoro e lo protegge, ma così facendo si risarcisce di antiche frustrazioni sociali, si compiace segretamente che il conte Fabrizio sia sottoposto gerarchicamente al borghese professionista che si è fatto da solo, che in pochi anni ha raggiunto una posizione. La poesia del self-made man percorre l’intera pièce, dettando gli accenti a loro modo epici dell’elogio delle virtù borghesi del lavoro, del risparmio, della disciplina. Il padre di Fabrizio, nobile corrotto e vizioso, falsifica su una cambiale la firma di Giulio Scarli, ma il figlio, a ben vedere, non è da meno. Il primo si appropria della firma del borghese; il secondo della sua donna. Un universo di umanità crudele si svela nello spazio angusto e un po’ claustrofobico del tinello, che è la versione un po’ degradata, un po’ piccolo borghese, del più raffinato salotto, consueto alla grande drammaturgia dell’Ottocento europeo.

Roberto Alonge

Note di regia
Lo spazio: la costruzione d’una stanza (qui descritta come tinello), luogo isolato al centro della scena nuda, e la costruzione dell’umore di questa stanza: luogo di passaggio e di accoglimento delle pulsioni dei personaggi, dove tutto accade, a sottolineare l’universo in qualche modo concentrazionario in cui si muove Emma. La stanza luogo anche morboso degli incontri di Emma con l’amante viene a poco a poco invasa dagli oggetti del quotidiano (i panni, i conti della spesa) o dalla famiglia (nei momenti di crisi c’è sempre l’apparizione della cameriera o della bambina), distruggendo quel desiderio bruciante di “altro”:
EMMA: Vedi bene! È giusto, va! Non è possibile! è una cosa degradante! Questa intromissione
Della casa…in…oh!.. Ci vogliono gli uomini oziosi, le donne inutili…
Spazio che ruoterà mostrando al pubblico diversi punti di vista: la stanza vista dallo studio del marito (Giulio) nel primo atto; attraverso un avvicinamento cinematografico come se tutta la stanza venisse a ridosso del pubblico nel secondo e dall’esterno nel terzo.

La rete di relazioni tra i personaggi: la grande tensione che li lega con filo invisibile, in un crescendo ambiguo di desiderio sessuale ed economico, di buoni sentimenti ed affari non proprio chiarissimi. Non c’è solo un personaggio puro, “pulito” e quindi gli attori dovranno rendere questa complessità di relazioni e giocare su questa tensione che pian piano si impadronisce della commedia, senza omettere una buona dose di ironia che innerva l’opera.

Il testo: il testo è stato rielaborato a partire dal manoscritto della prima messa in scena romana, recuperando soprattutto le scene di Marta (la domestica) contrappunto grottesco e concreto ai momenti di crisi di Emma, quasi una rivale. Altri sostanziosi recuperi sono stati fatti per quello straordinario personaggio del padre (Ettore) e qua e là un po’ per tutti i personaggi; sfoltendo viceversa i tanti raccordi tra una scena e l’altra.
In luogo dei tre atti previsti c’è un unico atto di circa 90 minuti scandito, a ricordarne la divisione precedente, da musiche di Puccini (con cui Giacosa collaborò per diversi libretti d’opera) rare o rielaborate da altri musicisti.
Può sembrare curioso o azzardato l’accostamento tra un regista di “ricerca” e un attore di teatro “popolare” come Mario Brusa. In realtà tutti e due facciamo semplicemente Teatro: se sarà di ricerca lo si vedrà dalla particolarità e dalla intelligenza del lavoro; se sarà popolare lo dirà il pubblico. Stiamo cercando di avvicinare il testo al Novecento, anche per la particolarità della figura del protagonista che è un “promiscuo”; è cioè un misto tra un prim’attore e un attore “brillante” fatto che lo imparenta a Pirandello o all’Eduardo, per esempio, di Questi fantasmi!; mentre dall’est aleggia il fantasma di Cechov.
Tutto ciò influenza il tono della recitazione: è un Giacosa duro e divertente, antinaturalistico ma profondamente vero.

Valter Malosti

Il volume Materiali per Giacosa  a cura di Roberto Alonge (ed. Costa & Nolan) contiene le note di regia, la testimonianza della critica e una memoria fotografica dello spettacolo.

  • di Giuseppe Giacosa
  • regia Valter Malosti
  • con Mario Brusa, Stefano Lescovelli, Roberta Bosetti,
    Antonio Paiola, Andrea Zalone, Barbara Callari, Greta Panigada
  • collaboratore alla regia per i movimenti Tommaso Massimo Rotella
  • scenografo Alessandro Marrazzo
  • organizzazione Anna Maria Canzonieri
  • allestimento costumi Sartoria Devalle
  • produzione Crut, Torino Spettacoli, Teatro di Dioniso