Polinice e Antigone (2000)

Il teatro porta con sé un senso del tempo, ed è il presente.
Adesso, dentro di noi. Tra di noi, un momento irripetibile, esatto.
Il teatro non può che essere presente.
Mi riguarda perché parla del passato e del passato dentro il presente. Dice Peter Sellars: mi sarebbe piaciuto vivere nel XVIII secolo, ma non posso, esisto ora e posso parlare solo di cose che mi accadono. Oppure che accadono, aggiungo io.
I classici non sono fatti solo per essere ammirati, guardati, ma vanno vissuti, abitati. Devono parlarci ancora.
Interrogando i due testi io sento che possono ancora parlare con forza, ma bisogna togliere una patina, portare luce elettrica nelle stanze. Rendere, quindi, quelle parole vere e credibili.
«Io credo che il teatro reclami come centro – quando è il teatro parlato – il mistero non traducibile del linguaggio; esso può diventare traducibile solo se, alla base, si colloca come struttura teatrale l’invenzione della lingua che appartiene a quel popolo. In questo caso non risulterà più tradotto; ma rifatto. Sarà, ecco, e per fortuna, un’altra, e diversissima opera», dice Testori.
La parola-materia.La parola-corpo. E carne, e sangue.
Corpo e voce devono avere forza identica se si vuole che qualcosa di questa grande energia arrivi.
L’esigenza di sperimentare una lingua teatrale nuova, viva, mi ha spinto in questi anni sia verso la drammaturgia contemporanea sia verso la riscrittura di classici, usando la lingua come uno dei materiali del lavoro di scena: in una idea di teatro dove corpo, voce, musica, immagine concorrono alla creazione e non sono subordinate le une alle altre.
E in Polinice-Antigone le relazioni fisiche e nello spazio tra i personaggi sono fondamentali: corpi che si toccano, si sfiorano creando un movimento interiore rivelato da un gesto che può smentire le parole.
Così, nel Polinice questi corpi danno vita ad una rete di relazioni, a una ragnatela di “contatti”: quei “meccanismi umani” che lo stesso Alfieri immaginò. Tradotti, nello spettacolo, in una iterata serie di abbracci mortali:
Vieni,…e ricevi in quest’ultimo amplesso…
Fratel,…da me… la meritata morte.

Mentre, dal buio affiorano lampi di una verità che ferisce e chiarisce:
Canova e Füssli
giorno e notte
bianco e nero
luce e oscurità

Ferro e velluti. Suggestioni visive per una scena pensata come grande reggia-labirinto. E per personaggi che dentro la prigione di un marmo bianchissimo, rivelano la loro infiammata, indifesa carnalità.
Alla polifonia drammatica di Polinice si contrappone, invece, l’assolo di Antigone: quasi un adagio di morte. La scena tra Antigone e Argia, che apre Antigone e chiude lo spettacolo, è una delle scene più belle di tutto il teatro alfieriano.
Polinice e  Emone dovrebbero avere il volto di un unico attore. La vita e la morte: questo il conflitto di cui vive Antigone. Una vocazione oscura, una vertigine luttuosa che la guiderà verso la fine.
E poi i fantasmi: Edipo, assente, che abita le due tragedie, con voci-ombre che affiorano dai muri. Dal passato. L’inferno.
Da Canova e Fussli, ci troviamo di fronte al grande Bacon.

Valter Malosti

  • da Vittorio Alfieri
  • regia di Valter Malosti
  • con Michela Cescon, Stefano Lescovelli, Valter Malosti, Magda Mercatali, Marco Toloni, Francesca Vettori
  • scene Lucio Diana
  • luci Gillian Mc Bride, costumi Andrea De Virgilio
  • collaboratore per i movimenti Tommaso Massimo Rotella
  • assistente alla regia Barbara Altissimo
  • una produzione Teatro di Dioniso
  • con il contributo di Regione Piemonte – Fondazione Crt
  • con il patrocinio del Centro Nazionale di Studi Alfieriani
  • ph. Fabio Palazzolo