La notte poco prima delle foreste (2000)

Presentato al Festival di Avignone nel 1977, La nuit juste avant les forêts è uno straordinario monologo, una “preghiera profana” – dal punto di vista stilistico collocabile tra Racine e Céline – , che si presenta come una sola frase di quaranta pagine, un unico getto di parole, in equilibrio tra lingua di strada e lingua letteraria.
Il testo è scritto senza segni forti di punteggiatura; movimento e respirazione danno al testo quasi una forma musicale di fuga. La voce-flusso è quella di un immigrato, o forse di un uomo in esilio, che dice insistentemente di essere uno straniero in Francia, mentre una pioggia incessante ed ossessiva cade su una casbah metropolitana, che è luogo di confine e di confino. Ma La notte poco prima delle foreste è più un soliloquio che un monologo, o meglio è un dialogo molto sbilanciato, con un antagonista muto o apparentemente assente (come avviene in molte altre pièce di Koltès). E’ un discorso indirizzato a qualcuno che non risponde. Un uomo solo, per strada, sotto la pioggia, parla ad un altro uomo, giovane. Non si sa neanche il nome di colui che parla nella notte. Unica indicazione scenica: un angolo di una strada. E’ lo spettatore che darà vita alla presenza dell’altro, ricostruirà mentalmente le sue reazioni, immaginando il controcampo a queste parole che esplodono nel silenzio. Niente azione niente risposte, ma allo spettatore rimane la sensazione di una domanda oscura, e di camminare nel mito dentro una pericolosa e derisoria riscrittura di una tragedia antica.
Koltès, che nelle sue interviste insiste sull’ironia presente nei suoi testi, ritiene La notte poco prima delle foreste il suo primo vero testo teatrale. Qui ci sono i temi ricorrenti nella sua opera. Innanzitutto la solitudine di colui che parla, il bisogno dell’altro, la domanda continua d’amore, e ancora l’esclusione, la violenza, la mercificazione dei rapporti, il rifiuto dell’autorità, delle ideologie, un terzo mondo crudele sempre in lotta, la ricerca dell’identità sessuale. Un disordine di cui l’eroe è vittima, vittima di una colpa sconosciuta, una specie di peccato originale, che abita un inferno diviso in chi è condannato da sempre e chi no.
Lo spettacolo parte dal mistero e piomba in un mistero: c’è un uomo che fugge, vorrebbe farsi chiamare l’esecutore, ma il suo vero nome non lo dirà mai. C’è solo la pioggia, la presenza ostile degli altri, quei coglioni là fuori, e il desiderio dell’altro (ho cercato qualcuno che fosse come un angelo, in mezzo a questo bordello), dunque il mistero dell’incontro immerso in una specie di lotta con un antagonista assente o invisibile. (Koltès adorava la boxe ed il kung fu, forme di lotta che ritualizzano la virilità). Chi parla ha mille storie dentro nella testa, in testa gli scoppia il mondo.
Lo spettatore deve rubare quello che accade, spiando dall’alto; vede una croce di terra, un incrocio, all’interno di una specie di arena, assiste ad una via crucis di strada, l’essere o non essere di una puttana che ingoia la terra, ragazze bionde e delicate che vanno a caccia di marocchini per pestarli, donne senza nome che appaiono sui ponti della città, soldati, foreste, specchi, e poi la divisione in zone della città, in una sorta di mappa decisa dall’alto, in una prefigurazione di Stalker di Tarkovskij, autore caro a Koltès, e poi l’universo della notte in strada, tra marchettari e pappa, clienti di puttane, “o di quello che ti piace”, teppisti, arabi, vecchie, mendicanti. Il tutto sempre con l’incedere di un classico, dentro un movimento interiore che mescola poesia alta a parole di strada, il desiderio di volo e l’essere inchiodati alla terra.
La camera. Cerco una camera, solo per stanotte, a casa mia non ci posso tornare. Questa camera inaccessibile è come l’esilio.
Ma cosa cerca veramente il protagonista? Una camera? una birra? un caffè? soldi? l’amore del giovane uomo incontrato?
Questa oscillazione della domanda è solo una domanda immensa d’amore, una ricerca di bellezza dentro questo deserto della strada e della vita, la ricerca urgente della quiete, perché come dice Koltès in una delle sue ultime interviste: …l’unica morale che ci resta è la bellezza, proteggiamola anche se non è troppo morale, senza la bellezza non vale la pena di vivere.

Valter Malosti

 

  • di Bernard Marie Koltès
  • traduzione di Giacomo Bottino e Valter Malosti
  • hanno collaborato alla traduzione Michele Di Mauro e Barbara Bruno
  • con Michele Di Mauro
  • regia e spazio scenico Valter Malosti
  • direttore allestimento Gennaro Cerlino, luci Francesco Dell’Elba
  • immagine di locandina Giancarlo Savino
  • produzione Teatro Giacosa di Ivrea / Teatro di Dioniso
  • ph. Fabio Palazzolo