IL GIARDINO DEI CILIEGI (2016)

“Una commedia in quatro atti”, questo il sottotitolo de Il giardino dei ciliegi.
Čechov insiste, polemizzando apertamente con Stanivslaskij e Nemirovich del Teatro d’Arte di Mosca, che per primi lo misero in scena, sul fatto che sia una commedia. Mentre crea la sua ultima opera scrive alla moglie Olga Knipper che «sarà immancabilmente comica, molto comica» e spende anche la parola “vaudeville”.
Il suo, si potrebbe azzardare, è un vaudeville tragico, un teatro che segna e forse inaugura l’impossibilità del tragico nel novecento, o meglio ancora si serve del comico a fini tragici come suggeriva Edoardo Sanguineti.
Čechov detestava la solennità, la seriosità, la lentezza.
Questo non vuol dire che il Giardino sia solo e semplicemente un vaudeville: è piuttosto la “commedia umana”, col suo ritmo e la sua musica, fatta di sottili variazioni. Čechov è un osservatore minuzioso della realtà: essendo medico sa discernere l’essenziale, e lucidamente diagnosticare, ma non smette di essere in grande empatia coi suoi personaggi, che guarda con tenerezza ma senza sentimentalismo.
Arriva sempre un effetto comico inaspettato a spezzare i momenti troppo carichi di pàthos.
La lingua di Čechov  rifugge le etichette ma vive di una scrittura lieve, trasparente, solo apparentemente facile, quotidiana; sono la costruzione delle battute, la punteggiatura, il non detto, la lingua fabbricata per gli attori e perla scena ad essere fondamentali. La recitazione non si può accomodare su tempi ampi, il senso del testo è scandito dal ritmo.
La scrittura vive del dettaglio, è cesellata, levigata, franta, e restituisce la vita con una raffinata e delicatissima musica  dell’anima. Racconta la vita, ma in forma concentrata, “compressa” nel tempo e nello spazio. Se si prova a parlare e a comportarsi come nella vita di ogni giorno, non si può recitare Čechov. L’apparenza naturalistica deve lasciar spazio a una tensione più ritmica, musicale, e non a caso Mejerchol’d  apparentava l’opera a una sinfonia di Čajkovskij.
Da Anton Čechov a Olga Knipper, Jalta, 10 aprile 1904
… Perché sui cartelloni e sugli annunci dei giornali  la mia pièce viene con tanta ostinazione definita  un dramma?  Nemirovich e Alekseev (Stanivslàskij) nella mia pièce, decisamente, vedono qualcos’altro,  non quello che io ho scritto, e sarei pronto a giurare che nessuno dei due l’ha letta almeno una volta con  attenzione. Scusami, ma ti assicuro che è così. E non mi riferisco solamente all’orrenda scenografia del secondo atto…
Quattro atti, come quattro movimenti di una sinfonia: ogni atto ha una sua costruzione musicale molto precisa, descritta bene dalle pause che l’autore dissemina (ad esempio sedici nel secondo, solo una nel terzo), mentre i segni di interpunzione spesso sono rilanci nella battuta, impulsi vitali, cambi repentini di pensiero. Agli attori è richiesto un dispendio di energia enorme, devono usare la tecnica, il ritmo del vaudeville e contemporaneamente far passare la vita, far scorrere impetuoso il flusso dell’emotività. Devono esporsi  come persone, la maschera attoriale non può bastare. Ogni personaggio segue i fili della propria esistenza, nessuno assomiglia all’altro e l’originalità e la personalità di ciascun attore sono essenziali.
Čechov scrive  Il giardino dei ciliegi con l’ombra della morte accanto: tutto è urgente.
Come i suoi anti-eroi, noi viviamo oggi un tempo inquieto,  di lacerazione. Le cose stanno cambiando. Non possiamo  afferrare ancora distintamente cosa se ne va e cosa resta.  Ci sfugge chi sia in marcia e verso dove, ma in questi minuti  fatidici, noi sentiamo, in modo netto, doloroso, il crepitio del tempo che fugge.
Dobbiamo regolarmente ritornare sugli adattamenti dei testi  classici. La sensibilità evolve, muta, ogni epoca ha la sua lingua per tradurre i grandi autori.
Dice Peter Brook a proposito del Giardino: «Oggi il nostro sguardo nel tradurre e adattare un testo, va in direzione della fedeltà, che significa non lasciar vagare nessuna parola nel vuoto, e questo partito preso è  tanto più interessante con Čechov, la cui qualità essenziale è la precisione.»
Non ho voluto modernizzare il testo, quanto accostarmi  come a uno dei grandi capolavori universali, quasi fosse un  libro sacro che arriva a noi da lontano e che necessita solo  di essere reinterpretato con lo spirito del nostro tempo, e la nostra sensibilità, non cambiando nulla della lettera del testo.
Ho chiesto a Vera Rodaro di aiutarmi a rispettare l’identità  dell’opera, e ho tentato di restituire in italiano la ricchezza di sfumature della sua scrittura e ad ogni personaggio la propria cifra espressiva, attraverso un lavoro accanito sul testo originale tradotto in modo letterale e approfondendo i campi semantici di alcune parole che nella mia versione italiana non  “suonavano”.
Con i testi di Čechov accade che alcune parole “stonino” in scena, come eseguire una nota sbagliata di una  delicatissima partitura. C’è un unico modo di dire le parole di quel certo snodo  drammatico e di quel pensiero.
Nel  Giardino  l’umanità si presenta squadernata in tutte le sue varianti: quattordici personaggi, uno diverso dall’altro. Ognuno di questi campioni di umanità è come uno strumento musicale, ognuno uno strumento diverso, con la sua musica.  Non c’è un modo di dire le battute, però c’è un “sentimento”  molto preciso nel dirle. Il nostro non è mai stato un lavoro sull’intonazione ma sul senso più profondo della battuta.
Dal corpo a corpo con questa scrittura è scaturita l’intuizione  di indirizzare certe zone di dialogo che si aprono quasi al soliloquio, pur in presenza di altri personaggi, direttamente  al pubblico. Sono “a parte” impensabili in un teatro che viene considerato naturalistico, così che viene spesso alla mente Goldoni che Čechov amava molto.
Firs, custode e lare della casa che riaccoglie i fantasmi che tornano ad abitarla, è stata una delle prime intuizioni, ed ha resistito persistente nel corso del lavoro. Firs è chiuso nella casa/teatro forse per sempre. Non lo vediamo morire, ma sappiamo che non ne uscirà più. Estremizzando, ho scelto di fargli recitare le didascalie che hanno lo stile dei celeberrimi racconti di Čechov.
Firs accompagna onnisciente lo svolgersi delle vicende, rivivendo ogni istante con fantasmi di coloro che hanno abitato la proprietà, come se fosse condannato a ripercorre ogni singola parola ed ogni singola azione.
Non penso alle didascalie come a una sorta di raffreddamento della materia cechoviana, anzi questa scelta vuole abbracciare ancor di più il pubblico: condividere le didascalie mi pare utile per comprendere lo svolgimento della storia, e permette di abbandonare la storia per immergersi nel gioco di scambio (di linfe) tra gli attori e le persone in sala.
La suggestione per l’impianto scenografico ci è stato suggerito da una battuta di Trofimov, che nel terzo atto cita un proverbio russo: «L’erba ha già invaso il sentiero». Avevo questa immagine in testa: l’erba, la natura che invade la proprietà. Una proprietà che ormai è una sorta di relitto abitato anche dai fantasmi della storia successiva al 1904.
Le grandi stanze sono state abbandonate e una testa monumentale di Lenin occhieggia dal fondo della scena. Dice Ljubòv’ Andrèevna: «… Io sono sempre in attesa di qualche cosa, come se da un momento all’altro dovesse crollarci addosso la casa».
Per il pubblico italiano non è facile avvertire quanto il testo sia cronologicamente vicino alla Rivoluzione d’Ottobre e ancor più vicino alla rivolta del 1905 e al conseguente bagno di sangue. Čechov, uomo di finissima sensibilità, coglie le energie, il ribollire sotterraneo delle coscienze che covano in Russia, le urgenze, le istanze che esploderanno nella Rivoluzione.
È molto importante che Lopachin risulti simpatico. Čechov  insiste sul fatto che debba essere elegante e sulla centralità del suo ruolo: «Mentre scrivevo Lopachin, mi sembrava che fosse la parte per voi… Lopachin è un mercante, è vero, ma una degna persona sotto ogni riguardo, egli deve comportarsi con tutta correttezza, da persona istruita, senza meschinità, senza stramberie, e mi sembrava proprio che questa parte, centrale nella commedia, vi sarebbe riuscita in modo brillante».
Čechov a Konstantin S. Alekséev – Stanislàvskij, Jalta, 30 ottobre 1903.
Aleksandr Minkin, di cui pubblichiamo un estratto del saggio sul Giardino, riconosce in lui una possibile incarnazione di Čechov (visto che non c’è nessun medico nella pièce), anche lui figlio e nipote di servi della gleba, il padre mercante, le bastonate ricevute nella sua infanzia.
Lopachin potrebbe comprare la proprietà per molto meno o lasciarla nelle mani del milionario Deriganov per pochi spiccioli. Invece Lopachin compra la proprietà per 90.000 rubli più il riscatto del debito e degli interessi, cifra notevolissima per l’epoca. Si può ragionevolmente pensare che Lopachin paghi in tutto almeno 120/130 mila rubli, all’incirca un milione e mezzo di euro odierni, pur se è difficile fare un raffronto corretto. Ma una cosa fondamentale da sapere è che i soldi restano alla famiglia, per questo Anja può continuare a studiare e Gaev si dice addirittura sollevato. Ed è forse proprio per questo che Trofimov dice a Lopachin che ha un’anima fine,
un’anima dolce.
Il secondo atto è la zona di testo che ha procurato più problemi a Čechov, sia dal punto dell’architettura, sia dal punto di vista della censura. In Italia si attende ancora un’edizione critica completa di tutta l’evoluzione: dal manoscritto originale all’edizione a stampa.  Come doveva essere il contenuto del manoscritto arrivato alla compagnia del teatro d’arte di Mosca e quali siano le aggiunte derivate dal lavoro di scena lo si deduce in gran parte dal libro di regia di Stanislavkij (pubblicato in Italia da Ubulibri). Ma sarebbe troppo lungo in questo contesto dar conto di tutto.
Abbiamo recuperato alcune battute, abbiamo capito quali fossero i tagli della censura nelle frasi di Trofimov e che materiale testuale le sostituisse (e in un caso abbiamo tenuto entrambi i testi). Epichodov cantante è un’invenzione legata alle prove e al virtuosismo istrionico del talentuoso attore Ivan Moskvin, ma soprattutto abbiamo totalmente riposizionato alla fine del secondo atto il personaggio di Charlota, inserendo la sua lunga battuta, che i lettori e gli spettatori sono abituati ad ascoltare all’inizio del secondo atto, all’interno del dialogo-non dialogo con Firs che chiude l’atto stesso. E con questo recupero Firs acquista uno spessore di personaggio e un retrogusto più amaro, più nero. «Chissà, forse avrebbe potuto anche rimproverarci; può essere infatti che questo taglio fosse stato colpa non  dell’autore, ma della nostra scarsa esperienza come registi. La fine del secondo atto, che avevamo tagliato, era scritta magnificamente». da Kostantin Stanislavskij,  La mia vita nell’arte, La casa Usher, 2009.
George Banu in un suo saggio su Il giardino dei ciliegi rifletteva sul fatto che il frutteto legittima la sua esistenza grazie all’effimero splendore dei ciliegi in fiore. Pervade lo sguardo e colma l’anima per una manciata di giorni: la sua bellezza affascina proprio perché è fuggevole. Bisogna saperla cogliere e saperne conservare il ricordo. Così è il teatro, dura il tempo d’un respiro, ma il suo ricordo può segnare tutta una vita.
Il giardino nel nostro spettacolo non si vede ma si percepisce nitidamente.
Mi chiedono cosa sia per me il giardino. Per me il giardino è il teatro.
Valter Malosti

leggi qui il Quaderno di sala de Il Giardino dei Ciliegi

  • di Anton Čechov
  • versione italiana e regia Valter Malosti
  • consulente per la lingua russa Vera Rodaro
  • con Elena Bucci, Natalino Balasso, Fausto Russo Alesi, Giovanni Anzaldo, Piero Nuti, Eva Robin’s, Roberto Abbiati, Gaetano Colella, Roberta Lanave, Camilla Nigro, Jacopo Squizzato
    e con gli allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino Federica Dordei e Alessandro Conti
  • costumi Gianluca Sbicca
  • scene Gregorio Zurla
  • suono G.U.P.Alcaro
  • luci Francescco Dell’Elba
  • cura del movimento Alessio Maria Romano
  • assitente alla regia Elna Serra
  • produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale con il sostegno della Fondazione CRT