Shakespeare / Venere e Adone (2007)

Londra, 1593. La peste sta devastando la città, i teatri sono chiusi. Shakespeare trova l’ispirazione, e un patrono, e scrive un piccolo capolavoro in versi: il poemetto erotico-mitologico Venere e Adone. Sarà, per l’epoca, un grandissimo successo, con numerose ristampe fino alla metà del secolo successivo, immancabile nei bordelli, quanto sotto il cuscino delle grandi signore aristocratiche e degli amatori. Venere e Adone sfugge a qualsiasi definizione: “comico oppure tragico, leggero oppure profondo, un inno alla Carne oppure un ammonimento contro la Lussuria: il poemetto è un mixtum in cui tutti i termini di queste antitesi sono simultaneamente veri. Introducendo nella sua storia un conflitto erotico che nelle Metamorfosi di Ovidio non era presente, Shakespeare ha fatto qualcosa di più che produrre un sicuro effetto comico — anche se questo “di più” passa precisamente e innanzitutto attraverso la comicità.

Note di regia
Immaginatevi dei binari che si perdono all’orizzonte, e un teatro/carro che arriva dinanzi ai vostri occhi da un altro luogo (e forse anche da un altro tempo) con sopra la “pazza dea dell’amore”. Carro barocco, ma anche carrello cinematografico, che si muove all’interno di una scena astratta, ma piena di piccoli misteri, soprattutto luminosi. Venere è una dea/macchina, dea ex machina ma anche sex machine, macchina barocca che tritura suoni e sputa parole. Una macchina di baci, una macchina schizofrenica di travestimento, una macchina di morte per l’oggetto del suo amore: Adone. E proprio da un improbabile pas de deux tra Venere e Adone prende spunto la partitura fisica dello spettacolo, tutta giocata su una minuscola e rischiosa pedana di ottanta centimetri quadri, base del carrello/macchina, da cui si può precipitare facilmente giù, metafora di una più abissale e misteriosa caduta.
Adone ricorda il giovane dei Sonetti – il che implica, naturalmente, che Venere ricordi Shakespeare. Shakespeare scrive su commissione, durante la peste del 1593, per il suo giovanissimo patrono, l’efebico diciannovenne Henry Wriothesley conte di Southampton, di cui è stato ritrovato, un paio di anni fa, un ritratto in abiti femminili. Il gioco delle identità entra così in un labirinto di specchi e si scivola in una progressiva promiscuità delle individualità. In scena, la dea/macchina/attore en travesti,  diventa anche Narratore e voce di Adone, divorando tutte le identità narranti.
Al di là del gioco degli specchi, del travestimento, dell’amaro umorismo, il poemetto è un vertiginoso punto di partenza per una ricerca sulle variazioni, le declinazioni e le contraddizioni del tema “amore”.
Ma Venere e Adone è anche una sorta di operina musicale: “il montaggio fonico attinge alle fonti acustiche più disparate, ai suoni della quotidianità sovrapposti a frequenze elettroniche e distorsioni, filtrando il tutto con musica elisabettiana e contemporanea. Musica come camera d’eco dei personaggi, come cartina di tornasole del loro spirito, musica che penetra dentro il testo, talvolta lo accarezza, più spesso entra in conflitto con esso per far schizzare scintille che ustionano ma anche illuminano.”

Valter Malosti

2007 Venere e Adone Estratti di rassegna stampa

  • in scena Valter Malosti e Daniele Trastu
  • coreografie Michela Lucenti
  • suono GUP Alcaro
  • luci Francesco Dell’Elba
  • scene Paolo Baroni
  • costumi Marzia Paparini
  • macchinista Matteo Lainati
  • traduzione e ricerca musicale Valter Malosti
  • produzione Teatro di Dioniso / Fondazione Teatro Stabile di Torino / Residenza Multidisciplinare Di Asti
  • con il sostegno del Sistema Teatro Torino